Muore Gabriel Garcia Marquez (col quale mi scuso per non aver ben accentato il suo nome per cause tecniche), qui la sua pagina Wikipedia. Lascia un vuoto nella letteratura mondiale, non c'è molto altro da dire. Premio nobel per la letteratura, le sue opere più famose sono senz'altro "Cent'anni di solitudine" e "L'amore ai tempi del colera". Quello di seguito è un brano che non è tratto da nessuno di queste due, per il principio che nei posti più piccoli e nascosti preserviamo i nostri segreti intimi. Usciamo dalla concezione che nel 2014 non si voglia leggere più di una frase. Vale davvero la pena.
"L'argomento dell'articolo di quel giorno, guarda un po', erano i miei novant'anni. Non ho mai pensato all'età come a una perdita nel soffitto che indica la quantità di vita rimanente. Da molto piccolo avevo sentito dire che quando una persona muore i pidocchi annidati fra i capelli scappano via impauriti sui guanciali con gran vergogna della famiglia. La qual cosa mi impressionò tanto, che mi lasciai rapare a zero per andare a scuola, e i pochi cernecchi che mi rimangono me li lavo ancora col sapone medicinale. Significa, mi dico adesso, che da molto piccolo mi sono formato meglio il senso del pudore sociale che quello della morte. Da mesi avevo programmato che il mio articolo di compleanno non fosse il solito piagnisteo sugli anni trascorsi, ma tutto il contrario: una glorificazione della vecchiaia.
Cominciai a domandarmi quando avevo preso coscienza di essere vecchio e credo che sia stato pochissimo tempo prima di quel giorno. A quarantadue anni mi ero recato dal medico con un dolore alla schiena che mi disturbava nel respirare. Lui non vi attribuì importanza: è un dolore naturale alla sua età, mi disse. "In questo caso" gli dissi io, "è la mia età a non essere naturale."
Il medico mi fece un sorriso dispiaciuto.
Vedo che lei è un filosofo, mi disse. Fu la prima volta che pensai alla mia età in termini di vecchiaia, ma non ci misi molto a dimenticarmene. Presi l'abitudine a svegliarmi ogni giorno con un dolore diverso che cambiava posto e forma a mano a mano che passavano gli anni. A volte sembrava fosse un'artigliata della morte e il giorno dopo svaniva. In quel periodo sentii dire che il primo sintomo della vecchiaia è che si comincia ad assomigliare al proprio padre. Devo essere condannato alla gioventù eterna, pensai allora, perché il mio profilo equino non assomiglierà mai a quello caraibico verace che è stato di mio padre, né a quello romano imperiale di mia madre. Il fatto è che i primi cambiamenti sono così tardi che si notano appena, e si continua a vedersi dentro come si era sempre stati, ma gli altri se ne accorgono da fuori.
Nel quinto decennio avevo cominciato a immaginarmi cos'è la vecchiaia quando notai le prime lacune della memoria. Percorrevo la casa cercando gli occhiali fin quando non scoprivo che li avevo sul naso, o li avevo infilati quando mi mettevo sotto la doccia, o inforcavo quelli per leggere senza togliermi quelli per vedere da lontano. Un giorno feci colazione due volte perché mi dimenticai la prima, e imparai a riconoscere il nervosismo dei miei amici quando non osavano avvertirmi che stavo raccontando la stessa cosa che avevo raccontato la settimana prima. A quell'epoca avevo nella memoria una lista di facce note e un'altra con i nomi di ognuna, ma al momento di salutare non riuscivo a far sì che le facce coincidessero con i nomi. La mia età sessuale non mi ha mai preoccupato, perché i miei poteri dipendevano più dalle donne che da me, e loro sanno il come e il perché quando vogliono. Oggi rido dei ragazzi di ottant'anni che consultano il medico spaventati da questi crucci, senza sapere che a novanta sono peggiori, ma non importano più: sono rischi dell'essere vivi. Invece, è un trionfo della vita che la memoria dei vecchi si esaurisca per le cose che non sono essenziali, ma che di rado venga meno per quelle che ci interessano davvero. Cicerone l'ha illustrato con una frase: Non c'è vecchio che dimentichi dove ha nascosto il suo tesoro.
Con queste riflessioni, e altre varie, avevo finito una prima stesura dell'articolo quando il sole di agosto esplose fra i mandorli del parco e il battello fluviale della posta, in ritardo di una settimana per la siccità, entrò bramendo nel canale del porto. Pensai: ecco che arrivano i miei novant'anni. Non saprò mai perché, né lo pretendo, ma fu nel segno di quell'evocazione raggelante che decisi di telefonare a Rosa Cabarcas affinché mi aiutasse a festeggiare il mio compleanno con una notte libertina. Da anni vivevo in santa pace col mio corpo, dedito alla rilettura erratica dei miei classici e ai miei programmi personali di musica classica, ma il desiderio di quel giorno fu così incalzante che mi sembrò un dono di Dio. Dopo la telefonata non mi fu possibile continuare a scrivere. Appesi l'amaca in un angolo della biblioteca dove al mattino non batte il sole, e mi distesi col petto oppresso dall'ansia dell'attesa. Ero stato un bambino coccolato con una mamma dai pregi molteplici, annientata dalla tisi a cinquant'anni, e con un papà pedante che non era mai stato colto in errore, e fu trovato morto nel suo letto di vedovo il giorno in cui venne sottoscritto il trattato di Neerlandia, che mise termine alla Guerra dei Mille Giorni e alle tante guerre civili del secolo precedente. La pace cambiò la città in un senso che non si era previsto né si voleva. Una ressa di donne libere fece arricchire le vecchie bettole della Calle Ancha, che fu poi il Camellón Abello e adesso è il Paseo Colón, in questa città della mia anima tanto apprezzata da locali ed estranei per la buona indole della sua gente e la purezza della sua luce. Non sono mai andato a letto con una donna senza pagarla, e le poche che non erano del mestiere le convinsi con la ragione o con la forza a prendere il denaro sia pure per buttarlo nella spazzatura. Verso i vent'anni cominciai a tenere un registro col nome, l'età, il luogo, e un breve resoconto delle circostanze e dello stile.
Fino ai cinquanta anni erano cinquecentoquattordici le donne con cui ero stato almeno una volta. Interruppi la lista quando ormai il corpo non ce la fece più così spesso e potevo tenere il conto senza annotare. Avevo la mia etica. Non ho mai partecipato a gazzarre di gruppo né ad accoppiamenti in pubblico, né ho mai spartito segreti né raccontato un'avventura del corpo o dell'anima, perché fin da giovane mi sono reso conto che nessuna rimane impune.
L'unico rapporto strano fu quello che intrattenni per anni con la fedele Damiana. Era quasi una bambina, mezza india, forte e selvatica, dalle parole brevi e perentorie, che girava scalza per non disturbarmi mentre scrivevo. Ricordo che io stavo leggendo La lozana andalusa sull'amaca nella veranda, e la vidi per caso china sul lavatoio con la sottana così corta che lasciava allo scoperto l'inizio delle sue cosce succulente. In preda a una febbre irresistibile gliel'alzai da dietro, le abbassai le mutande fino alle ginocchia e la montai al contrario. Ah, signore, disse lei, con un gemito lugubre, quello è fatto non per entrare ma per uscire. Un tremito profondo le fece rabbrividire il corpo, ma si tenne salda. Umiliato per averla umiliata volli pagarle il doppio di quanto costavano le più care di allora, ma non accettò neppure un soldo, e dovetti aumentarle la paga calcolando una monta al mese, sempre mentre lavava la roba e sempre controsenso. Una volta pensai che quei calcoli di letti sarebbero stati un buon supporto per una relazione delle miserie della mia vita traviata, e il titolo mi cascò dal cielo: Memoria delle mie puttane tristi."
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